Ustica: Follini critica la prigionia del passato, sollecitando un Paese unito e senza incertezze
Il nostro paese ha vissuto una lunga e dolorosa stagione di lotte e misteri, che ci ha portato a riflettere sulle domande più affascinanti delle risposte. Abbiamo vissuto per quasi cinquant’anni lungo il confine tra est e ovest, tra nord e sud, al crocevia delle grandi potenze del tempo. Queste vicende ci hanno costretto a confrontarci con la limitazione della nostra sovranità nazionale e con le violente dispute che si svolgevano ai margini del Mediterraneo. Entrambe queste situazioni hanno richiesto un pesante tributo da parte nostra.
È comprensibile e necessario che si cerchi di fare luce sui misteri che hanno accompagnato questi eventi. Non possiamo vivere a lungo con dubbi, sospetti e doppiezze che hanno caratterizzato quella lunga stagione di guerre. Specie quando sussiste il dubbio, quasi la certezza, che il sangue versato sia stato promosso da potenze nemiche, forse anche da potenze alleate.
Ci sono però due difficoltà nell’affrontare questa impresa. La prima è che stiamo aprendo questioni che risalgono a molti anni fa (43 nel caso di Ustica): una sorta di “cold case” geopolitico molto difficile da ricostruire. Nel frattempo, molti protagonisti sono morti, molte carte sono scomparse, molte verità sono state nascoste, e molte prove sono state smarrite. Continuiamo ad indagare, a cercare tracce, ma il tempo ha reso tutto più nebuloso. Come dimostrano i grandi enigmi della storia, come l’assassinio di Kennedy, il passare degli anni complica le cose.
La seconda difficoltà è più specificamente nostra e riguarda la nostra posizione geopolitica estremamente complessa di quegli anni. Eravamo europeisti e atlantici, senza dubbio. Ma il nostro atlantismo era controverso, anche tra coloro che lo sostennero apertamente. Gli Stati Uniti erano il nostro principale protettore, ma anche un alleato difficile e sospettoso, che a sua volta veniva guardato con diffidenza. I francesi erano nostri “cugini” e rivali allo stesso tempo, e questa rivalità non è stata sempre pacifica, basti pensare a Mattei e all’Algeria, e poi alla Libia. I palestinesi erano considerati una minaccia, ma il nostro approccio diplomatico li ha resi meno pericolosi grazie ad una diplomazia parallela. Tuttavia, gli israeliani non vedere di buon occhio questa diplomazia eppure erano nostri alleati. E così via.
In altre parole, la nostra diplomazia si è sempre mossa con cautela, riflettendo la complessità politica del nostro paese. La democrazia italiana è sempre stata caratterizzata da sfumature e i conflitti che abbiamo affrontato hanno riflettuto e amplificato questo sottile gioco di sfumature che ci rende così particolari. Possiamo citare l’esempio del Sudafrica e della commissione per la riconciliazione che Nelson Mandela ha creato per porre fine ai conflitti nel suo paese. In quel caso, c’è stato un netto cambio di regime, con la confessione dei crimini e il perdono che sono arrivati con esso. Noi, invece, siamo ostaggi di un passato che non passa mai, perché i nostri cambiamenti avvengono sempre in modo tortuoso. Questo può essere considerato un vanto per alcuni, come appassionati di politica all’artiglio di Machiavelli, ma alla fine ci impedisce di vedere chiaramente e crea una coltre di nebulosità che ci ostacola troppo spesso.